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Rapsodia della memoria in 23 racconti e un ritratto

Anno: 2013
Genere: Storia di famigliari e amici nelle due guerre mondiali
Pagine: 147
ISBN: 8863210918
Edito da: Pioda Imaging Editore

IL PONTE

China su fronte si ses sezziddu pesa…China la fronte se sei seduto alzati

Il nonno raccontava vicino al fuoco, davanti all’enorme camino, mentre fuori il gelo e il vento facevano crepare le lastre di ghiaccio nella fontana, voleva distrarre il bambino che pretendeva di uscire per osservare gli effetti del ghiaccio su un vascello a vela che aveva appositamente lasciato a galleggiare nella vasca del giardino sin da quel pomeriggio… non bisogna avere fretta… gli disse il nonno… e non si esce a quest’ora di notte con questo gelo… il bambino lo guardò deluso, aveva letto tutte quelle avventure degli esploratori polari, quelle storie di navi bloccate a svernare nel ghiaccio, l’orribile scricchiolio della carena pressata dal pack e il lamento lugubre del ghiaccio che si ammassa contro le fiancate e ora non poteva vedere il suo vascello.

Era una delle prime gelate di febbraio e il bambino cercava di immaginare il suo vascello con lo scafo nero leggermente inclinato, con le vele distese, irrigidite dal gelo e le sartie coperte di aghi di ghiaccio, nella grande fontana circolare, di pietra bianca come l’Antartide… e dai nonno ti prego facciamo una corsa!… disse.

Il nonno allora lo chiamò vicino a sé e gli mostrò il suo grande orologio da tasca d’argento che di solito amava tenere in mano e caricare lentamente mentre raccontava. Il bambino capì subito, adorava i racconti del nonno e dimenticò il polo sud e la sua nave nel ghiaccio.

Il fuoco dava dei guizzi improvvisi come lingue di lucertola, per il resto era calmo e la brace ardeva rossastra.

Ci ritiravamo da giorni, dopo Caporetto… cominciò il nonno… faceva freddo come stanotte ed eravamo la sola retroguardia dell’armata, dietro di noi venivano a frotte tedeschi, austriaci, croati, slesiani, ci inseguivano di giorno e di notte, i loro pattuglioni armati sino ai denti arrivavano da tutte le parti, cercavano di prenderci, appena accendevamo un fuoco per scaldarci ci erano addosso e per fumare dovevamo farlo a rovescio… e, così dicendo, mostrava come faceva a fumare con il fuoco dentro, il bambino guardava affascinato il nonno che, tenendo la brace della sigaretta in bocca, riusciva a fumare… era anche un modo di scaldarsi… soggiunse il nonno, dopo aver fatto quella specie di gioco di prestigio… e poi in trincea si fumava così per non farsi colpire dai cecchini… il bimbo si ricordò che in trincea non ci si poteva accendere la sigaretta in tre passandosi lo stesso fiammifero perché il terzo diventava quasi sempre un bersaglio per il tiratore nemico appostato nel buio e la cosa avveniva tanto spesso che accendersi la sigaretta in quel modo era considerato di malaugurio anche molto tempo dopo che la guerra era finita, quando nessuno ormai sapeva più perché.

Il bambino sapeva già della catastrofe di Caporetto e della grande guerra nella quale il nonno aveva combattuto, sapeva anche della Brigata Sassari della quale il nonno aveva fatto parte ed assunse subito un’aria volutamente attenta e seria.

Passammo notti di gelo e di veglia… continuò il nonno… eravamo l’ultima forza combattente che guardava le spalle all’armata in fuga, ci ritiravamo in ordine resistendo da ogni posizione che per il nemico fosse difficile aggirare. Cercavamo in tutti i modi di non farci circondare ma ogni volta che ci fermavamo a combattere le avanguardie nemiche cercavano di aggirarci sui fianchi scoperti come a Codroipo che, dopo feroci combattimenti, dovemmo abbandonare perché il nemico buttatosi per la campagna e tenendosi fuori tiro stava per insaccarci.

Quando giungemmo al Piave, in un posto chiamato Priula, il nostro battaglione protesse la Brigata che attraversava il fiume su un grande ponte di pietra, poi giunse il momento di passare anche noi e cominciammo a sganciarci a scaglioni, ma non si poteva andar via tutti, qualcuno doveva trattenere il nemico per consentire agli altri di passare il ponte.

Nel nostro scaglione estraemmo a sorte chi doveva restare, poi aprimmo un intenso fuoco verso le pattuglie nemiche che avanzavano e, senza una parola, ci allontanammo furtivi.

Guardai quelli che restavano di retroguardia, mentre cominciavo a scendere verso il ponte, si erano sdraiati tra i sassi e accucciati dietro dei muretti sbrecciati e gridavano e si chiamavano fra loro in sardo per farsi coraggio e per far credere al nemico di essere più numerosi, uno fece un cenno verso di noi con la mano aperta come per salutarci, io mi voltai e cominciai a correre.

Avevano due mitragliatrici e cominciarono a sparare a raffica mentre noi scendevamo a rotta di collo lungo la scarpata sino allo stradone che portava al ponte.

Mentre correvamo si sentì la fucileria crescere di intensità, poi la sparatoria di colpo cessò, dopo alcuni tonfi di bombe a mano scese un silenzio strano e irreale rotto soltanto dall’ansimare della corsa e dalle pietre che facevamo rotolare a valle e quel silenzio terribile voleva dire che nessuno combatteva più sul crinale, che i nostri compagni erano tutti morti, quei poveretti che avevamo lasciato lassù, quei poveri ragazzi, i nostri amici.

Tiratori nemici si affacciarono sullo spartiacque, si vedevano le nuvolette bianche degli spari sfioccare sulla cresta e si sentivano gli schiocchi e i fischi dei proiettili, questi rumori accompagnavano adesso la mia corsa, insieme alla vergogna, alla rabbia e al dolore.

Vedevo il ponte, il fiume scorreva calmo in quel pomeriggio di novembre, ma l’acqua aveva l’aria di essere ghiacciata, tenevo la pistola nella fondina, vidi un soldato dall’altra parte agitare le braccia e un altro gridare qualcosa con la bocca spalancata e le mani a megafono, ma non riuscivo a sentirne la voce, c’era solo lo sciabordio della corrente tra i piloni del ponte, un mormorio triste.

Una mitragliatrice cominciò a sparare su di noi dalle colline e uno che era tra me e il fiume accelerò la corsa, poi qualcuno dietro di me urlò in sardo… e basta! basta!… e basta che non siamo mica pecore!!… fermi! non corriamo più!… il grido fu subito ripetuto da altri… fermi e fermi che non siamo pecore… tutti rallentammo e ci fermammo qualcuno tornò persino indietro, ci ammassammo ad una trentina di metri dal ponte, nessuno correva più, poi il maggiore si guardò intorno, guardò il crinale e disse una volta sola con voce calma e senza urlare… passiamo marciando ragazzi!!… passiamo inquadrati!… e, come d’incanto, tutti ci inquadrammo allineandoci perfettamente come fossimo in piazza d’armi e traversammo il ponte a passo cadenzato, qualcuno vicino a me cominciò a cantare a bassa voce, tra i denti, l’inno della brigata e lo seguì un coro pieno di rancore come il brontolio di un tuono.

Noi non volevamo più correre… il nonno tacque un attimo e si schiarì la voce… su quel ponte, non volevamo più correre, i nostri amici erano rimasti lassù e noi non volevano più correre, qualche colpo adesso cadeva in acqua e una mitragliatrice sparava brevi raffiche in lontananza, ma quasi nessuno sparava più dal crinale.

Il nonno gonfiò il petto in un sospiro di orgoglio un po’ triste, e continuò… noi sardi, noi della brigata, siamo stati gli ultimi ad attraversare il Piave, poi ci spiegammo subito a difesa, dietro i parapetti, a sinistra e a destra del ponte, lungo il fiume, e vedemmo le avanguardie nemiche scendere esitanti dalle colline, ma nessuno di loro si avvicinò, sparacchiavano da lontano svogliati, forse aspettavano rinforzi o forse avevano paura.

Erano le sedici e cinque del 9 novembre 1917, quando il ponte della Priula finalmente saltò in aria in un bagliore accecante, l’eco dell’esplosione rimbombò a lungo ed una grande nuvola rossastra rimase sospesa nel cielo incombendo su di noi poi si allontanò lenta seguendo il corso del fiume.

Nonno perché non volevate più correre?… chiese il bambino, aveva capito, ma non voleva che il racconto finisse… così era meglio, attraversare a passo di marcia era meglio, ci vergognavamo di aver lasciato indietro gli altri… mormorò il nonno… forse era da stupidi ma era l’unica cosa che potevamo fare per quelli che non sono tornati… quelli che sono rimasti lassù per noi… e mentre parlava faceva ruotare indietro le lancette del suo grande orologio da tasca.


“È un percorso ancestrale e nuovo che si snoda nelle antiche radici del futuro, è una commovente mostra di vecchie fotografie in bianco e nero nelle quali sterminati campi lunghi si alternano a sapienti primi piani di personaggi ritratti senza filtri. È un sentiero sgranato, ruvido, a tratti coperto di muschio vellutato, che si inoltra nel bosco bambino dei racconti misteriosi davanti al fuoco… un sentiero che, accanto alle ombre e alle atrocità della guerra, lascia filtrare, tra i rami dei ricordi, quella luce melodiosa e piena che anima i cieli immensi della speranza”
Sandro Montanari